Angelo Domenghini, l’Angelo azzurro, bergamasco, classe 1941, nel corso di un’intervista al quotidiano Avvenire è tornato sulla sua esperienza al Cagliari e sul Mondiale in Messico.
Una leggenda della Nazionale: campione d’Europa nel ’68 e nel ’70, l’anno in cui vinse lo scudetto a Cagliari, in Messico giocò Italia-Germania 4-3, che però non considera la “partita del secolo”.
Chiuso per carattere e vocazione, «dicono che sono un orso, ma gli orsi possono essere pericolosi – sorride – io invece no», dice dal buon ritiro di Liscia di Vacca, un angolo di paradiso caraibico in quella Sardegna in cui è venerato come tutti gli eroi che fecero l’impresa del Cagliari tricolore del 1970.
Otto mesi l’anno Domenghini li passa qui, con gli amici di sempre e ripassando i ricordi di una vita da campione.
«I miei veri tifosi sono stati i miei genitori. Si sono ammazzati di fatica per crescere noi 9 figli – ha commentato Domenghini.
In casa eravamo in 11, la famiglia è stata la mia prima squadra di calcio, ma mista, c’erano sei sorelle.
Papà e mamma gestivano l’osteria di Lallio: cucina della nonna, bocciofila e fiumi di rosso di Manduria ai tavoli per gente che lavorava.
Alla domenica tutti a giocare a carte sotto il pergolato con i grappoli di uva americana sopra le teste…
Un’altra era, un’altra Italia».
«Nel campetto dell’oratorio mi vide don Antonio e mi portò al Verdello, poi mi fece firmare per l’Atalanta – ha ricordato Domenghini.
Ma al mattino lavoravo da apprendista alla fabbrica Magrini e al pomeriggio mi allenavo.
Ero un fuscello, pesavo 52 chili.
A un certo punto l’imprenditore Visentini e il direttore sportivo dell’Atalanta Tentorio si misero a tavolino chiedendosi: “Lo tengo io a fare l’operaio o serve più a voi come calciatore?”.
Tentorio rispose: “ Va bene, da domani Angelo non viene più a lavorare”.
Avevo 18 anni, feci salti di gioia fino al soffitto dell’officina. All’Atalanta mi davano 150mila lire al mese».
«Una bella somma, ma certo oggi fa ridere perché sento di calciatori di 18-20 anni che strappano 8-10 milioni di euro al primo contratto.
Roba da matti, non sono d’accordo, ma è il mondo che hanno voluto quelli che comandano il calcio di adesso».
Dopo l’Atalanta, arrivò l’Inter.
«Fu un bel salto, prima di tutto economico.
All’Atalanta prendevo 1 milione e Moratti sul primo contratto scrisse al volo 15 milioni. Stavo svenendo.
Comprai subito un Duetto Alfa Romeo.
Giravo per le strade di Milano e mi sembrava di toccare il cielo con un dito».
Nel ’69 arriva il Cagliari.
«La presi male, ero molto dispiaciuto, mi sembrò una retrocessione.
Il Cagliari aveva delle ambizioni ma dovemmo dimostrare partita dopo partita di essere i più forti.
Fu una grande rivincita vedere la gioia della gente di Sardegna alla quale avevamo regalato un sogno.
Non scorderò mai la felicità che ho visto negli occhi dei miei compagni e del nostro allenatore, il grande Manlio Scopigno».
Dopo quell’impresa storica, ci fu la “partita del secolo”, Italia-Germania 4-3.
«Disputammo una gran partita contro i tedeschi ma è sbagliato continuare a chiamarla la “partita del secolo”, perché quella nel caso sarebbe stata la vittoria in finale contro il Brasile.
Io quel 4-1 non l’ho mai digerito.
Fino al 65’ eravamo sull’1-1 e sono sicuro che se avessimo avuto un giorno in più di riposo probabilmente Pelè e i suoi compagni brasiliani non sarebbero diventati invincibili come hanno scritto».
Meglio Pelè o Maradona?
«Sa cosa gli rispondo? Meglio Domenghini…
In quel Mondiale del ’70 io non mi sono sentito inferiore a nessuno, neppure a Pelè.
Se potessi rigiocarla quella partita sono sicuro che finirebbe diversamente, forse la vincerei».
Quando ha smesso non sognava di allenare una delle sue tre squadre del cuore, Atalanta, Inter e Cagliari?
«Ho allenato per 12 anni e siccome le grandi, come quelle, non mi cercavano ho sempre accettato tutte le proposte che mi arrivavano, dall’Olbia fino alla Battipagliese.
Non ho vinto, ma almeno mi sono divertito».
Domenghini sarebbe stato convocato per Euro 2024?
«Spalletti una maglia numero 7 credo che me la darebbe, perché di gente che salta l’uomo come facevo io non ne vedo mica tanta in giro».